31 gennaio 2021

GIORGIO PERLASCA - UN SILENZIOSO UOMO GIUSTO



GIORGIO PERLASCA - UN SILENZIOSO UOMO GIUSTO

"Mio padre mi racconta che nel mondo esistono il Bene e il Male; spesso vince il Bene, a volte vince il Male. Ma in ogni momento della Storia del Mondo esistono trentasei Giusti: nessuno sa chi sono, nemmeno loro stessi. E' per loro che Dio non distrugge il mondo, perchè essi compiono delle azioni buone che li rende graditi a Dio, salvando così l'umanità intera. Io penso che Giorgio Perlasca fosse uno di loro".
(Ebrea ungherese salvata da Giorgio Perlasca)



Il 31 gennaio 1910 nasceva a Como Giorgio Perlasca, l'eroe silenzioso che nell'inverno del '44, in piena seconda guerra mondiale, riuscì con rischiosi inganni a salvare la vita a oltre 5000 ebrei ungheresi
La sua storia rimase pressoché sconosciuta fino al 1987, quando alcune donne ungheresi residenti in Israele riuscirono, dopo anni di ricerca, a rintracciarlo e finalmente ringraziarlo di averle salvate quando erano solo delle bambine.
Il ritrovamento era stato difficoltoso poiché le donne cercavano un certo Jorge Perlasca, ambasciatore spagnolo, ignorando che effettivamente, per una serie di circostanze, all'epoca dei fatti si spacciava per tale
.

Ricostruendo sommariamente i fatti, Giorgio Perlasca, dopo aver aderito al Partito Nazionale Fascista arruolandosi nelle Camicie nere, nel 1936 parte volontario come artigliere prima per guerra d’Etiopia e poi, nel 1937, per la guerra civile di Spagna, dove combatte a fianco dei nazionalisti del Generalísimo de los Ejércitos o il Caudillo de España, Francisco Franco.

Il generale Francisco Franco

Fu così che ebbe modo di assimilare bene sia la lingua sia la cultura, ma soprattutto così riuscì a guadagnarsi la concreta riconoscenza dei franchisti, i quali gli rilasciarono un documento che attestava la sua partecipazione alla guerra civile spagnola e l'autorizzazione, se avesse avuto bisogno di aiuto, a rivolgersi alla loro ambasciata in qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi momento.
Questo documento in seguito si rivelò prezioso e non solo per lui.
Al termine della guerra civile spagnola nel 1939, Perlasca rientra in Italia, ma non trovando approvando la promulgazione delle leggi razziali e l'alleanza con la Germania nazista, si allontana dal fascismo.

Benito Mussolini e Adolf Hitler

Fresco di matrimonio, dopo aver chiesto e ottenuto la licenza militare indeterminata , si trasferisce all'estero con la moglie, lavorando prima in Croazia, Serbia e Romania poi in Ungheria, a Budapest, come agente venditore di carne per una ditta di Trieste, la SAIB (Società Anonima Importazione Bovini).
Si trova dunque a Budapest l'otto settembre 1943, giorno dell'armistizio tra l'Italia e gli Alleati , quando restando al giuramento fatto al Regno d'Italia, rifiuta di aderire alla Repubblica Sociale Italiana di Mussolini.
Ciò gli costò mesi di carcere, ma approfittando del trasferimento dal carcere in città per una visita medica Perlasca fugge e si rifugia presso l’ambasciata spagnola mostrando il prezioso documento firmato personalmente dal generalissimo Franco.
L'ambasciata spagnola non delude le sue aspettative e gli fornisce protezione, un passaporto spagnolo intestato a Jorge Perlasca e anche un incarico di funzionario.

Giorgio Perlasca

Perlasca iniziò così a collaborare con l’ambasciata spagnola che, tramite l’ambasciatore spagnolo Ángel Sanz Briz e il consulente legale, era impegnata a salvare gli ebrei di Budapest, così come altre ambasciate, ospitandoli in "case protette" che godevano di copertura diplomatica e rilasciando salvacondotti gratuiti affinché potessero mettersi in salvo all’estero.
Poi purtroppo gli eventi precipitano e pur di non riconoscere il nuovo governo filonazista ungherese, i Paesi neutrali, tra cui anche la Spagna, decidono di ritirare i propri diplomatici da Budapest e chiudere le ambasciate.
Immediatamente, le croci felciate ungheresi ne approfittano per fare irruzione nelle case protette e arrestare tutti gli ebrei presenti.

 

Ambasciatore spagnolo Ángel Sanz Briz

Perlasca non riesce a restare indifferente davanti a tante vite umane in pericolo e, a rischio della sua stessa vita, ordisce una serie di inganni pur di fare quello che sente unicamente il suo dovere. Spacciandosi per il sostituto dell'ambasciatore Ángel Sanz Briz , tiene aperta l'ambasciata e, collaborando col sempre presente consulente legale, studiano  il modo di salvare gli ebrei sfruttando una vecchia legge promossa nel 1924 da Miguel Primo de Rivera, che riconosceva la cittadinanza spagnola a tutti gli ebrei di ascendenza sefardita , ossia gli ebrei di antica origine spagnola  scacciati dalla Santa Inquisizione intorno al 1500 .
Riesce così a rilasciare i salvacondotti e a porre sotto la tutela giuridica della Spagna oltre cinquemila ebrei ungheresi.


A Perlasca è anche attribuita la salvezza del ghetto di Budapest che, secondo le sue informazioni, doveva essere incendiato dai militari insieme ai 60.000 ebrei che vi vivevano.
Per evitare la tragedia chiede un incontro al ministro degli interni, Gábor Vajna, che aveva collaborato con i tedeschi a istituire il ghetto il 29 novembre 1944.
 Inventandosi ritorsioni legali ed economiche sui "circa 3000 cittadini ungheresi" residenti in Spagna, che in realtà erano solo poche decine, e assicurando che avrebbe fatto anche pressione per ottenere lo stesso trattamento da parte di due governi latinoamericani, convince il ministro ad annullare l'operazione.
Dopo la caduta di Budapest , Vajna tentò di fuggire in Europa occidentale, ma fu catturato dagli americani; successivamente   processato a Budapest per crimini di guerra, crimini contro l'umanità e tradimento, fu condannato e impiccato nel 1946.

Ministro degli interni ungherese Gábor Vajna

In base alle dichiarazioni di Pál Szalai, un alto ufficiale di polizia ungherese che, deluso e pentito, faceva il doppio gioco e salvava ebrei collaborando con l’ambasciatore svedese Raoul Wallenberg,  fu merito di quest'ultimo se il ghetto fu risparmiato.
Secondo Szalai, fu Wallemberg a scoprire che Adolf Eichmann, uno dei maggiori responsabili operativi dello sterminio ebreo, aveva comandato l'incendio del ghetto al comandante delle truppe tedesche in Ungheria, il generale Gerhard Schmidhuber.

 Il generale Gerhard Schmidhuber


Tramite Szalai, Wallenberg inviò a Schmidhuber un'aspra reprimenda assicurandogli che lo avrebbe ritenuto personalmente responsabile del massacro e, a guerra finita, lo avrebbe fatto processare  per crimini di guerra.
Schmidhuber sapeva perfettamente che la guerra volgeva al termine e che non si sarebbe conclusa a favore dei nazisti,  quindi il rischio di finire condannato e impiccato gli sembrò molto concreto,  si fece dunque intimidire dall'ambasciatore svedese e il massacro fu  sventato.
Schmidhuber rimase comunque ucciso in azione durante la Battaglia di Budapest l'11 febbraio 1945; Adolf Eichmann, invece, sfuggito al processo di Norimberga, si nascose in Argentina ma fu scovato dal Mossad che lo processò in Israele condannandolo a morte per genocidio e crimini contro l'umanità nel 1962.


 SS-Obersturmbannführer Adolf Eichmann


Perlasca comunque smentì Szalai, asserendo che in tal modo volesse solo alleggerire la sua posizione e raccontò la versione che conosciamo.
  Raoul Wallenberg fu imprigionato dalle truppe sovietiche nel 1945 e di lui non si seppe più nulla, quindi non sapremo mai come andò realmente.  
 In seguito l'Unione Sovietica dichiarò che lo svedese morì nel 1947 per attacco cardiaco nel palazzo della Lubjanka, sede dei servizi segreti sovietici a Mosca, il corpo cremato e sotterrato in una fossa comune presso il monastero moscovita di Donskoj.
 Dopo la guerra, Szalai fu uno dei pochi membri di alto rango del Partito della Croce delle Frecce a non essere giustiziato e fu liberato in riconoscimento della sua collaborazione con Wallenberg, che già solo consegnando   dei certificati con bandiera e stemma della corona svedese,  i cosiddetti "passaporti Wallenberg", aveva salvato la vita a decine di migliaia di ebrei.

 Ambasciatore svedese Raoul Wallenberg

Anche Perlasca fu fatto prigioniero dall'Armata rossa in quanto filo-fascista solo e  solo dopo la guerra, nell'agosto 1945, riuscì a tornare in Italia.

Per evitare eventuali imputazioni dal governo spagnolo, scrisse un memoriale in tre copie: una la consegnò all'ambasciata spagnola, una al governo italiano e una copia la tenne per sé.
Dopodiché non raccontò la propria vicenda né alla famiglia, né alla stampa, ma si rivolse solo ai pochi vertici cui potevano interessare le due memorie; ma tutti, compreso Alcide De Gasperi, vuoi per ragioni diplomatiche, vuoi per ragioni politiche, o semplicemente per disinteresse, lo ignorarono.
 Soltanto all'inizio degli anni '60 apparvero un articolo sul Resto del Carlino che raccontava la sua vicenda e uno su La Stampa, ma senza nessuna risonanza.
Solo nel 1980, quando rischiò di morire a causa di un ictus, si decise a rivelare ai propri familiari dell'esistenza del memoriale, preoccupato che in caso di decesso andasse perduto.
Il memoriale, con il titolo "L'impostore", fu pubblicato postumo nel 2007.




Giorgio Perlasca condusse dunque una vita riservata e la sua ammirevole vicenda probabilmente non sarebbe più emersa, se le donne ungheresi non fossero riuscite a rintracciarlo, dichiarando a tutti il suo eroismo.
Da quel momento cominciarono per lui la lunga e giusta serie di onorificenze in tutto il mondo, a cominciare da Israele che, concedendogli la cittadinanza onoraria, nel 1989 lo proclama Giusto tra le Nazioni e lo invita a Gerusalemme a piantare in un vialetto del museo Yad Vashem , un albero a suo nome.
Sempre In Israele gli è stata dedicata una foresta dove sono stati piantati 10.000 alberi, a simboleggiare le vite degli ebrei da lui salvati.
 La Spagna gli conferisce l’onorificenza di Isabella la Cattolica; gli Stati Uniti nel 1990 lo invitano a posare la prima pietra del Museo dell’Olocausto di Washington.
L’Italia gli conferisce la Medaglia d’Oro al Valor Civile , il titolo di Grande Ufficiale della Repubblica e nel 1991  oltre all’onorificenza di Grande Ufficiale,  il Senato approvò un vitalizio annuo a suo favore, che lui rifiutò.


E non potevano certo mancare i riconoscimenti dell’Ungheria, che gli assegna la Stella al Merito, massima onorificenza nazionale, mentre a Budapest, nel cortile della Sinagoga, il nome di Perlasca appare in una lapide che riporta l'elenco dei Giusti tra le nazioni.
Tale elenco che inizia con il nome di Raoul Wallemberg, include, tra gli altri, anche quello di Ángel Sanz Briz che, dopo la guerra aveva continuato la carriera diplomatica morendo a Roma, inviato come ambasciatore di Spagna presso la Santa Sede, l'11 giugno 1980.

Memoriale dei Giusti tra le nazioni nel parco "Raoul Wallenberg" di Budapest


Giorgio Perlasca morì per un attacco di cuore a Padova il 15 agosto 1992 e riposa, da suo volere, sepolto nella terra nel cimitero di Maserà a pochi chilometri da Padova.
Sulla lapide, oltre alle date di nascita e morte, un’unica frase: “Giusto tra le Nazioni”.
Il testamento spirituale che Giorgio Perlasca ha lasciato ai posteri, può essere riassunto nella frase: “vorrei che i giovani si interessassero a questa mia storia unicamente per pensare, oltre a quello che è successo, a quello che potrebbe succedere e sapere opporsi, eventualmente, a violenze del genere”



27 gennaio 2021

EDITH STEIN- SANTA TERESA BENEDETTA DELLA CROCE

 


Tra le tante vittime della Shoah si contano numerosi religiosi di fede cattolica e Edith Stein, monaca cristiana, filosofa e mistica tedesca dell'Ordine delle Carmelitane Scalze, altrimenti conosciuta come Teresa Benedetta della Croce, figura tra queste.

Nata a Breslavia, capitale storica della Slesia il 12 ottobre 1891, da una famiglia ebrea di ceppo tedesco e cresciuta seguendo i valori della religione israelitica, ma durante l'adolescenza diventò, atea, come lei stessa spiegò: "dall’età di tredici anni fui atea perché non riuscivo a credere nell’esistenza di Dio."


Studia filosofia a Gottinga, diventando prima discepola e poi assistente del celebre filosofo Edmund Husserl, il fondatore della scuola fenomenologica. 
Fu tra le pochissime donne del suo tempo che poté studiare e insegnare brillantemente filosofia, inoltrandosi nei sentieri di una ricerca esistenziale e quando nel 1917 si laureò, aveva già al suo attivo una serie di studi importanti che le avrebbero aperto le porte della carriera accademica.
In questi anni si dedicò anche all'attività politico-sociale, impegnandosi nel Partito Democratico Tedesco a favore del diritto di voto alle donne e al ruolo nella società della donna che lavora.
Protesa però in una ricerca incessante e radicale della verità, impegnata nella soluzione dei grandi problemi della vita, non poteva non imbattersi nella verità di Dio che tramite Gesù sacrifica tutto per gli uomini, senza fermarsi neppure di fronte al suo dolore e alla sua morte.
Il pensiero di Dio, cominciò a insinuarsi con forza crescente nella sua vita, alimentato anche da alcuni avvenimenti, come la morte durante la prima guerra mondiale di uno stimato professore che causò grande dolore ai suoi conoscenti, ma soprattutto per la moglie, la quale anziché crollare sotto il peso del dramma, reagì trovando in Dio la forza di iniziare una nuova vita.
Edith ne fu profondamente colpita e ricordando l'episodio scrisse: “Fu il mio primo incontro con la croce e con la forza che essa comunica in chi la porta”.



La ricerca della verità la condusse verso la verità di Dio e nel 1921 il cammino di avvicinamento giungeva alla conclusione quando , ospite di un’amica, Edith scelse a caso un libro tra i molti di cui era fornita la biblioteca e si trovò tra le mani la voluminosa autobiografia di santa Teresa d’Ávila.
Santa Teresa aveva sintetizzato in un motto la sua fede: "Dio basta" e la Stein leggendolo si disse : "questa è la verità", e lo fece suo.
Nel 1921 si convertì al cattolicesimo, ricevendo il Battesimo nel 1922 anche se la sua scelta di diventare cattolica la mise in contrasto con la madre, che era molto legata alla religione ebraica.
Dopo la conversione, Edith continuò a insegnare in vari collegi religiosi, ma il regime nazista aveva già cominciato a discriminare gli ebrei, costringendoli a lasciare insegnamento.
Il 12 aprile 1933, alcune settimane dopo l'insediamento di Hitler al cancellierato, Edith Stein scrisse a Roma per chiedere a papa Pio XI e al suo segretario di stato - il cardinale Pacelli, già nunzio apostolico in Germania e futuro papa Pio XII - di non tacere più e di denunciare le prime persecuzioni contro gli ebrei.
La Stein, non potendo più insegnare, decise di dedicarsi alla vita contemplativa e realizzando un desiderio che da tempo portava nel cuore, entrò nel monastero carmelitano a Colonia prendendo il nome di Teresa Benedetta della Croce.
Il Carmelo è una grande scuola di umiltà ed Edith dovette dedicarsi come le altre sorelle alle faccende domestiche, adeguandosi alle esigenze della vita comune con gioia, per seguire Gesù anche nelle quotidiane umili cose.
Nel monastero scrisse il suo libro metafisico "Essere finito ed Essere eterno", con l'obiettivo di conciliare le filosofie di Tommaso d'Aquino e di Husserl.
L’odio contro gli ebrei intanto aumentava e la presenza di Edith nel Carmelo di Colonia, pur sempre ebrea nonostante la conversione al cristianesimo, costituiva un pericolo per le sue consorelle.
Si trasferì allora in Olanda, nel Carmelo di Echt, dove si dedicò allo studio della figura e dell’opera di san Giovanni della Croce grande riformatore, assieme a santa Teresa d’Ávila, della vita carmelitana, scrivendo "La scienza della croce. Studio su Giovanni della Croce".
Nel 1940 i tedeschi invasero anche l’Olanda, e Edith dovette appuntare sull’abito monastico la stella gialla che la segnalava come ebrea.
"Sono contenta di tutto" - scriveva- "solo se si è costretti a portare la croce in tutto il suo peso, si può conquistare la saggezza della croce".

Il 2 agosto 1942 Edith e sua sorella Rosa, pure lei convertita, furono prelevate e deportate nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau dove furono uccise nelle camere a gas il 9 agosto 1942 e poi cremate.
Un ebreo scampato allo sterminio, testimone delle ultime ore di Edith, descrisse la sua serenità e il prodigarsi per gli altri nel lager, soprattutto delle donne prede dello sconforto e della disperazione. "Vivendo nel lager in un continuo atteggiamento di disponibilità e di servizio – scrisse il testimone – rivelò il suo grande amore per il prossimo".
Edith Stein fu proclamata, da Papa Giovanni Paolo II, beata nel duomo di Colonia l’1 maggio 1987 e santa l’ 11 ottobre 1998 nella basilica di San Pietro in Vaticano.  
L'anno successivo fu dichiarata compatrona d’Europa, con Santa Brigida di Svezia e Santa Caterina da Siena.
La Chiesa la ricorda il 9 agosto.



QUANDO HANNO RAPATO A ZERO- Leopold Levin



Tra le tante orrende sevizie che i nazisti riservavano ai prigionieri dei lager, c'era quella meno cruenta, ma lo stesso di forte impatto emotivo, di rasare i capelli.
In prima ipotesi verrebbe da pensare che fosse per evitare le pediculosi, ma la verità è che avevano anche trovato il modo di trarne profitto.
I capelli venivano trasformati, previo avvolgimento in bobine, soprattutto in feltro industriale, mentre con quelli delle donne e bambine, solitamente più lunghi e folti, riuscivano anche a fabbricare calde pantofole o li adoperavano per adornare le teste di costose bambole.
Inquietante anche solo il pensiero!


QUANDO HANNO RAPATO A ZERO


 "Quando hanno rapato a zero le donne del convoglio

 quattro detenuti hanno spazzato via i capelli

di quelle che stavano per essere gassate

e li hanno ammonticchiati.

Bene in vista, il mucchio di capelli dei giustiziati.

Vi palpita qualche spilla,

qualche pettine d’osso.

La luce non li illumina più,

il vento più non li spettina, nessuna mano li accarezza più,

né la pioggia,

né le labbra.

Nelle casse di capelli

delle donne asfissiate c’è una treccia legata da un nastro,

a scuola i più monelli

la tiravano sempre".


Leopold Levin
( nato il 9 novembre 1898 a Oslo- morto ad Auschwitz nelle camere a gas il 4 gennaio 1943)



WILHELM BRASSE - IL FOTOGRAFO DI AUSCHWITZ




WILHELM BRASSE - IL FOTOGRAFO DI AUSCHWITZ


Nato il 3 dicembre del 1917 a Żywiec, piccola città polacca, Wilhelm Brasse raggiunse tristemente la notorietà per essere stato il “fotografo di Auschwitz” durante la seconda guerra mondiale.
La fotografia era la sua passione fin da adolescente e imparò l'arte da una zia, che possedeva uno studio fotografico.
Nel settembre del 1939, in seguito all’invasione della Polonia da parte dell’esercito nazista, Brasse ricevette forti pressioni per unirsi ai nazisti.
Il suo rifiuto di dichiarare fedeltà a Hitler destò i sospetti della Gestapo che lo interrogò più volte.
Preoccupato per la sua incolumità, Brasse tentò di scappare in Francia, ma fu catturato e deportarlo ad Auschwitz nell’agosto del ‘40.
Considerata la sua professione, fu destinato alla sezione del campo che si occupava di documentare l’arrivo dei deportati, identificarli e fotografarli.
Brasse fu anche incaricato di fotografare i prigionieri che interessavano Joseph Mengele, l'aberrante medico nazista che eseguiva agghiaccianti e folli esperimenti, senza alcuna anestesia, usando cavie umane.


Il blocco n° 10 dove Joseph Mengele faceva i suoi esperimenti



Verso la fine della guerra, prima di evacuare il campo, i nazisti ordinarono ai fotografi di distruggere il materiale fotografico, ma questi, desiderosi di salvare le foto dall'oblio e consegnarle alla storia, riuscirono a nascondere buona parte del materiale.
Dal 1940 al 1945, Brasse scattò tra le 40 e le 50.000 foto e molte di quelle che riuscì a salvare sono esposte al Museo di Auschwitz-Birkenau.
Nel 2018, la colorista e restauratrice digitale brasiliana Marina Amaral, nota per le sue colorazioni di fotografie storiche, scelse circa una ventina di foto d'archivio da colorare per realizzare il progetto Faces of Auschwitz, in collaborazione con il Museo di Auschwitz-Birkenau.
Tra le foto scattate proprio da Brasse, la Amaral rimase molto colpita da quella di Czesława Kwoka.


Czesława Kwoka 
(Wólka Złojecka, 15 agosto 1928 – Auschwitz, 12 marzo 1943)



Czeslawa era una ragazzina polacca di religione cattolica, mandata ad Auschwitz con la madre Katarzyna nel dicembre del 1942.
Nella foto è ben visibile un taglio sul labbro fattole da una kapò che la picchiò perché non capiva il tedesco e fu lo Wilhelm Brasse a ricordare il drammatico episodio nel documentario The Portraist: “Era così giovane e terrorizzata. La ragazza non capiva perché si trovasse lì, e non riusciva a capire quello che le era stato detto. Quindi una donna Kapo’ (chiamata anche Blokowa) prese un bastone e la picchiò sul volto.
Questa donna stava sfogando tutta la propria rabbia sulla ragazza. Una bella ragazza, così innocente. La giovane pianse, ma non poteva far niente. Prima che le scattassi la fotografia, la piccola si asciugò le lacrime e il sangue dal taglio sul labbro. A dire la verità, mi sono sentito come se fossi stato colpito io stesso, ma non ho potuto interferire. Sarebbe stata un’interferenza fatale. Non potevi dir nulla“.
Czesława Kwoka morì il 12 marzo 1943, meno di un mese dopo la madre, e anche se le cause della sua morte non sono state rese note, pare finì nelle mani del dottor Mengele, che dopo averla usata come cavia, la uccise con un’iniezione di fenolo al cuore.


Brasse rimase ad Auschwitz fino ai primi giorni del 1945, poi in seguito all’offensiva dell’Armata Rossa fu trasferito con migliaia di altri prigionieri nel campo di concentramento austriaco di Ebensee, liberato dall’esercito statunitense nei primi giorni di maggio 1945.
Finita la guerra, Brasse tornò a Żywiec dove provò a riprendere il suo lavoro di fotografo, ma dopo aver passato anni a fotografare persone per la maggior parte destinate alla morte, aveva sviluppato una certa repulsione per l’obiettivo, tormentato dal ricordo di quei visi sofferenti.
Decise dunque di abbandonare definitivamente la fotografia e per vivere lavorò in un salumificio.
Brasse morì nella sua Żywiec, dove si era sposato e aveva avuto due figli e cinque nipoti, il 23 ottobre 2012.


SOLI - Autore sconosciuto


"Lo strazio più grande, in questi cinquant’anni, è stato quello di dover subire l’indifferenza e la vigliaccheria di coloro che, ancora adesso, negano l’evidenza dello sterminio."

(Elisa Springer)


SOLI

 Con il loro sguardo

imploravano.

Con il loro dolore

si rivelavano.

Tutti fingevano

di non capire,

di non vedere,

di son sapere.


Con il loro silenzio

li hanno traditi

annientati

sterminati.

( Autore sconosciuto)

PRIMA VENNERO GLI EBREI - Martin Niemöller




Martin Niemöller, teologo e pastore protestante tedesco, è diventato famoso soprattutto per questa poesia che mette l'accento sul comportamento indifferente, soprattutto degli intellettuali dell'epoca nazista, nei confronti dei deportati nei campi di concentramento.
Comandante di sommergibili durante la prima guerra mondiale, prima di iniziare gli studi teologici, anche Niemöller era un attivista favorevole al Partito Nazista, finché, presa coscienza dei crescenti orrori, nel 1934 cominciò a opporsi al nazismo e soprattutto alle intenzioni di Adolf Hitler di sottomettere tutte le chiese tedesche sotto il controllo dei nazisti e dei cosiddetti cristiani tedeschi .
Niemöller continuò a predicare in tutta la Germania, ma le sue influenti e ricche amicizie contribuirono a tenerlo fuori dai guai finché, a causa di un suo sermone particolarmente esplicito e veemente, non fu arrestato nel 1937 dalla Gestapo su ordine di un infuriato Hitler.


Rimase per otto anni prigioniero in vari campi di concentramento, tra cui di Sachsenhausen e Dachau
Trasferito nel 1945 nel Tirolo in Austria, dove le forze alleate lo liberarono alla fine della seconda guerra mondiale.
La poesia, che vi propongo nel testo più conosciuto, ha diverse varianti ed è oggetto di molte citazioni, non di rado viene attribuita a Bertolt Brecht.


PRIMA VENNERO GLI EBREI


"Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, 

e fui contento, perché rubacchiavano. 

Poi vennero a prendere gli ebrei,

 e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. 

Poi vennero a prendere gli omosessuali, 

e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi

. Poi vennero a prendere i comunisti,

 e io non dissi niente, perché non ero comunista.

 Un giorno vennero a prendere me, 

e non c'era rimasto nessuno a protestare".


Martin Niemoeller

(Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)

ALZARSI - Primo Levi


 ALZARSI


Sognavamo nelle notti feroci

Sogni densi e violenti

Sognati con anima e corpo:

Tornare; mangiare; raccontare.

Finché suonava breve sommesso

Il comando dell’alba:

“Wstawac”;

E si spezzava in petto il cuore.


Ora abbiamo ritrovato la casa,

Il nostro ventre è sazio,

Abbiamo finito di raccontare.

È tempo. Presto udremo ancora

Il comando straniero:

“Wstawac”.


Primo Levi , La tregua, 1963

DAVID OLERE- IL PITTORE DELL'OLOCAUSTO

Il cibo dei morti per i vivi - Autoritratto di David Olère


DAVID OLERE- IL PITTORE DELL'OLOCAUSTO


Tanti scampati all'Olocausto hanno descritto il terrificante vissuto nei campi di concentramento in libri o poesie, David Olère lo fece invece "fotografando" i suoi ricordi in raccapriccianti disegni e opere su tela raffigurando spesso anche se stesso, più simile a uno spettro che a un essere umano. I disegni realizzati tra il 1945 e il 1947 sono più di cinquanta e ispireranno le sue successive opere su tavola che nel 1976 donerà al Museo di Arte del Ghetto Fighters d'Israele.




David Olère nacque a Varsavia il 19 gennaio 1902 e studiò all’Accademia di Belle Arti; dopo aver vissuto e lavorato in Germania qualche anno, nel 1923 si trasferì a Parigi, dove lavorò come pubblicitario e costumista per la Paramount Pictures. Era un tranquillo uomo come tanti, sposato e con un figlio, quando il 20 febbraio 1943, Olère fu arrestato dalla polizia francese durante un rastrellamento di ebrei nella Seine-et-OiseIl 2 marzo 1943 giunse insieme a circa mille ebrei ad Auschwitz-Birkenau e fu selezionato insieme con altri diciotto per il lavoro, mentre il resto finisce gasato poco dopo l'arrivo.




Registrato come prigioniero 106144, lo assegnano al Sonderkommando, la squadra speciale di prigionieri costretta ad accompagnare quelli destinati alla morte e poi svestire, tagliare i capelli, estrarre i denti d’oro ai cadaveri, svuotare le camere a gas e cremare i corpi. I membri di quest’unità vivevano in settori dei campi, completamente separati dagli altri deportati e, normalmente, ricevevano un trattamento migliore come maggiori quantità di cibo, vestiti più pesanti e, probabilmente sopportare meglio l'orribile lavoro, anche alcolici.



Molti storici e deportati sopravvissuti criticarono il comportamento dei Sonderkommando, accusandoli di non aver rifiutato l'infame compito. Lo stesso Primo Levi, li definì "corvi neri del crematorio" anche se invitava, nello stesso tempo, a non essere lapidari nei giudizi perché bisognava immedesimarsi e comprendere che la scelta era, in pratica, tra una qualche speranza di vita o una morte resa certa dal rifiuto.



Verso la fine della prigionia, quando le guardie erano troppo preoccupate per le sorti della guerra e quindi la sorveglianza meno attenta, Olère iniziò a disegnare dettagliatamente quanto vedeva. Poiché le testimonianze fotografiche di quanto avveniva nei campi di concentramento, furono trovate solo successivamente negli archivi delle SS, i disegni  di Olère ebbero un valore documentario eccezionale, rivelandosi determinanti per capire soprattutto com’erano strutturati e come funzionavano i forni crematori e le camere a gas, venendo persino mostrati nei processi contro i nazisti come veri e propri atti di accusa .


Ritratto di Erich  Muhsfeldt, oberscharführer delle SS. responsabile alle camere a gas,  processato ad Auschwitz nel 1947 e giustiziato a Cracovia nel 1948, mediante impiccagione.



David Olère riuscì a salvarsi anche perché parlava sei lingue: polacco, russo, yiddish, francese, inglese e tedesco, utile quindi come interprete per tradurre le notizie trasmesse dalla BBC. Le SS apprezzavano anche la sua abilità come illustratore e da lui si facevano scrivere le lettere da spedire ai familiari con un'elegante calligrafia gotica e decorazioni floreali.





David Olère rimase ad Auschwitz fino al 19 gennaio del 1945 quando, a fronte dell’avanzata dell’Armata rossa, i nazisti ormai sconfitti decisero di ritirarsi trascinandosi dietro tutti i prigionieri ancora sani e intraprendendo una disperata "marcia della morte" che li condusse prima al campo di Mauthausen, poi ai sotto campi di Melk ed Ebensee da dove Olère tentò ben cinque la fuga. La salvezza infine giunse il 6 maggio 1945 con l'arrivo dell'esercito americano che liberò i campi.




Tornato a Parigi poté riabbracciare la moglie e il figlio, ma apprese anche che tutta la sua famiglia di origine era stata sterminata a Varsavia.
Condusse la sua attività di pittore e scultore, senza  mai smettere di testimoniare con la sua arte l'orrore visto e vissuto durante l'Olocausto.



Morì a Parigi il 21 agosto 1985, peraltro turbato dalle teorie negazioniste che iniziavano a diffondersi  in Europa e che, di conseguenza, mettevano anche in dubbio la veridicità dei suoi disegni.
  La sua testimonianza prosegue attraverso la moglie e il figlio che continuano a informare il mondo su quanto avvenuto ad Auschwitz tramite le sue scioccanti opere.

David Olère  - Autoritratto

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