5 luglio 2019

SALVATORE QUASIMODO


SALVATORE QUASIMODO

Salvatore Quasimodo, il poeta per eccellenza, il cantore delle cose, della vita e della solitudine e, insieme a Eugenio Montale e Giuseppe Ungaretti, rappresenta la massima espressione della poesia contemporanea italiana.

Secondogenito del ferroviere Gaetano Quasimodo e Clotilde Ragusa, nacque il 20 agosto 1901 a Modica, la cittadina in provincia di Ragusa dove si girano le riprese della seguitissima serie televisiva del commissario Montalbano, tratta dai romanzi di Andrea Camilleri.



Quasimodo ebbe una vita raminga e anche economicamente non proprio agiata.
Nel 1909, in seguito al devastante terremoto con conseguente maremoto di Messina del 28 dicembre 1908, la famiglia Quasimodo si trasferisce proprio nella città dello Stretto, dove al padre era stato affidato l'incarico di riorganizzare il traffico ferroviario, adattandosi a vivere in un carro merci fermo su un binario morto della stazione.
Il poeta ricorderà per sempre la devastazione della morte e le fucilazioni degli sciacalli sorpresi a rubare tra le macerie.
Impressioni che rimarranno così vive nella sua memoria da narrare, anni dopo, in una poesia dedicata a suo padre e inserita nella raccolta poetica “La terra impareggiabile" (1955 – 1958)



AL PADRE

Dove sull’acque viola

era Messina, tra fili spezzati
e macerie tu vai lungo binari
e scambi col tuo berretto di gallo
isolano. Il terremoto ribolle
da due giorni, è dicembre d’uragani
e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
nei carri merci e noi bestiame infantile
contiamo sogni polverosi con i morti
sfondati dai ferri, mordendo mandorle
e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
del dolore mise verità e lame
nei giochi dei bassopiani di malaria
gialla e terzana gonfia di fango.

La tua pazienza

triste, delicata, ci rubò la paura,
fu lezione di giorni uniti alla morte
tradita, al vilipendio dei ladroni
presi fra i rottami e giustiziati al buio
dalla fucileria degli sbarchi, un conto
di numeri bassi che tornava esatto
concentrico, un bilancio di vita futura.

Il tuo berretto di sole andava su e giù

nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
Anche a me misurarono ogni cosa,
e ho portato il tuo nome
un po’ più in là dell’odio e dell’invidia.
Quel rosso del tuo capo era una mitria,
una corona con le ali d’aquila.
E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni
ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
di partenza colorati dalla lanterna
notturna, e qui da una ruota
imperfetta del mondo,
su una piena di muri serrati,
lontano dai gelsomini d’Arabia
dove ancora tu sei, per dirti
ciò che non potevo un tempo – difficile affinità
di pensieri – per dirti, e non ci ascoltano solo
cicale del biviere, agavi lentischi,
come il campiere dice al suo padrone:
“Baciamu li mani”. Questo, non altro.
Oscuramente forte è la vita.

(Salvatore Quasimodo, da“ La terra impareggiabile",1955 – 1958)



Conseguito il diploma di geometra a Messina, nel 1919 lascia la Sicilia alla volta di Roma dove si iscrive alla facoltà di ingegneria, senza mai completare gli studi a causa di problemi economici, ma trovando il tempo, tra un impegno lavorativo e l'altro, di studiare latino e greco sotto la guida di monsignor Mariano Rampolla del Tindaro.
E' a Roma che il poeta stesso decide di cambiare l’accentazione del suo cognome che in origine era in origine piana, quindi Quasimòdo, in sdrucciola cioè Quasìmodo.




Le precarie condizioni economiche terminarono nel 1926, quando venne assunto dal Ministero dei lavori pubblici e assegnato come geometra al Genio Civile di Reggio Calabria.
Nello stesso anno sposò Bice Donetti, una donna più matura di lui e di cui pare che Quasimodo si vergognasse un pò perché semi-analfabeta, ma che restò sua moglie fino alla morte di lei, nel 1946.

EPITAFFIO PER BICE DONETTI

Con gli occhi alla pioggia e agli elfi della notte,
è là, nel campo quindici a Musocco,
la donna emiliana da me amata
nel tempo triste della giovinezza.
Da poco fu giocata dalla morte
mentre guardava quieta il vento dell’autunno
scrollare i rami dei platani e le foglie
dalla grigia casa di periferia.
Il suo volto è ancora vivo di sorpresa,
come fu certo nell’infanzia, fulminato
per il mangiatore di fuoco alto sul carro.
O tu che passi, spinto da altri morti,
davanti alla fossa undici sessanta,
fermati un minuto a salutare
quella che non si dolse mai dell’uomo
che qui rimane, odiato, coi suoi versi,
uno come tanti, operaio di sogni.


(Salvatore Quasimodo)




Nel 1929 si trasferì a Firenze, su invito del cognato Elio Vittorini che lo inserì nell’ambiente letterario.
A Firenze conobbe tra gli altri Eugenio Montale e fu influenzato dai poeti ermetici, che come lui rifiutavano la dilagante retorica fascista e in opposizione al Romanticismo e al sentimentalismo imperanti del periodo.
L’anno seguente fu pubblicato il suo primo volume di liriche “Acque e terre”, accolto favorevolmente da pubblico e critica.
Seguirono poi “Oboe sommerso” del 1932, “Erato e Apollion” del 1936, con cui diventa uno rappresentanti di punta dell’ermetismo



Remo Brindisi - Ritratto di Salvatore Quasimodo 

Nel 1931, lasciata Firenze, il poeta soggiornò a Imperia, dove conobbe Amelia Spezialetti, una donna già sposata da cui ebbe nel 1935 la figlia Orietta Quasimodo.
Nello stesso anno, Quasimodo avvia una burrascosa e chiacchierata relazione con la nota scrittrice Sibilla Aleramo, di ben venticinque anni più anziana di lui.



Sibilla Aleramo

Nonostante il matrimonio, infatti, Quasimodo non era affatto restio a intrecciare legami con altre donne.
Troncato il legame con la Aleramo, nel 1936 il poeta si lega alla danzatrice Maria Cumani, di sette anni più giovane di lui e probabilmente il grande amore della sua vita.



Maria Cumani


Dalla Cumani, che sposò nel 1848, ebbe il figlio Alessandro.
 Quasimodo però incapace di fedeltà coniugale e lui e la sua seconda moglie finirono per separarsi nel 1960.
Per concludere la sua vita amorosa, l’ultima donna dell'irrequieto poeta è stata la poetessa Curzia Ferrari, cui dedicò questa poesia:

MI CHIEDI PAROLE

"Mi chiedi parole. Ma il tempo

precipita come un masso sulla mia anima
che vuole certezze, e più non ha sillabe
da offrire se non quelle silenziose
del sangue legate al tuo nome,
o mia vita, mio amore senza fine".

(Salvatore Quasimodo, Mi chiedi parole dedicata a Curzia Ferrari, 1967).



Salvatore Quasimodo e Curzia Ferrari

Nel 1939 inizia a collaborare con il settimanale "Tempo" e  1941 ottiene "per chiara fama" la cattedra di Letteratura italiana presso il Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, città dove si accostò alla politica come militante di sinistra.
Pur professando chiare idee antifasciste, non partecipò attivamente alla Resistenza e negli anni della Seconda Guerra Mondiale   si dedicò alla traduzione del Vangelo secondo Giovanni, di alcuni Canti di Catullo e di episodi dell'Odissea.
Nel 1945 si iscrisse al PCI e l'anno seguente pubblicò la nuova raccolta dal titolo "Con il piede straniero sopra il cuore", ristampata nel 1947 con il nuovo titolo "Giorno dopo giorno", testimonianza dell'impegno morale e sociale dell'autore che continuò, in modo sempre più profondo, nelle successive raccolte come: "La vita non è sogno", "Il falso e il vero verde" e "La terra impareggiabile", composte fra il 1949 e il 1958.


Durante questi anni il poeta svolse anche una continua attività giornalistica  scrivendo soprattutto articoli di critica teatrale.
I premi vinti da Quasimodo sono tanti, tra cui  il più prestigioso un Nobel per la letteratura nel 1959 "per la sua poetica lirica, che con ardente classicità esprime le tragiche esperienze della vita dei nostri tempi".
 Riceve inoltre  la "laurea honoris causa" dall'Università di Messina nel 1960 e nel 1967 quella dall'Università di Oxford.



"Ognuno sta solo nel cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera."
(Salvatore Quasimodo,  da  “Ed è subito sera”, 1942)

Sono questi, giustamente, i versi più celebri di Salvatore Quasimodo e non solo perché possono considerarsi espressione esemplare della poetica ermetica del poeta, ma soprattutto perché vanno dritti al cuore di ognuno di noi, confermando con stile mirabile una realtà umana universale: la solitudine esistenziale e il rapido trasmutare delle illusioni.
La commozione lirica che anima i pochi versi, esprime, come meglio non potrebbe, l'irrimediabile solitudine dell'uomo sulla terra,neppur lenita da affetti o amicizie: per il poeta l' uomo è sostanzialmente solo con se stesso, con la sua vita interiore, con il suo nodo di sentimenti e con una "sera" che giunge ben presto a spegnere il proprio raggio di sole.
La poesia di Quasimodo del resto è espressa tutta così, in forme ed immagini d'una nitida e classica compostezza che racchiudono e sintetizzano i temi eterni dell'uomo e della vita.



 Dopo “Ed è subito sera” del 1942, scrisse “Giorno dopo giorno” del  1947, “La terra impareggiabile” del  “1958” e “Dare e avere” del 1966.
Legato alla sua Sicilia, dove tornò per lunghi periodi, Quasimodo dedicò numerose liriche alla terra natia, mitizzata nella rievocazione e identificata come una sorta di paradiso perduto...


S’ ODE ANCORA IL MARE

Già da più notti s’ode ancora il mare,
lieve, su e giù, lungo le sabbie lisce.
Eco d’una voce chiusa nella mente
che risale dal tempo; ed anche questo
lamento assiduo di gabbiani: forse
d’uccelli delle torri, che l’aprile
sospinge verso la pianura. Già
m’eri vicina tu con quella voce;
ed io vorrei che pure a te venisse,
ora, di me un’eco di memoria,
come quel buio murmure di mare.

(Salvatore Quasimodo da “Giorno dopo giorno”, 1947)



Quasimodo trascorse gli ultimi anni di vita compiendo numerosi viaggi in  giro per il mondo, per tenere conferenze e letture pubbliche delle sue liriche che, nel frattempo, erano state tradotte in diverse lingue.
 Durante uno di questi viaggi, in Unione sovietica fu colpito da un infarto che lo costrinse a passare sei mesi di ospedale, poi nel 1965 venne colpito da un ictus.
L'ultima raccolta di Quasimodo, "Dare e avere", risale al 1966 e costituisce una sorta di bilancio della propria esperienza poetica e umana: accanto a impressioni di viaggio e riflessioni esistenziali molti testi affrontano, in modo più o meno esplicito, il tema della morte, con accenti di notevole intensità lirica.
  Il 14 giugno del 1968,  mentre si trovava ad Amalfi per presiedere un premio di poesia, Quasimodo venne nuovamente colpito da un ictus e il suo cuore cessa di battere sull'auto che lo stava trasportando all'ospedale di Napoli.
Il suo corpo fu trasportato a Milano e tumulato nel Famedio del Cimitero Monumentale, luogo che  ospita anche le spoglie di Alessandro Manzoni.

DARE E AVERE

Nulla mi dai, non dai nulla
tu che mi ascolti. Il sangue
delle guerre s'è asciugato,
il disprezzo è un desiderio puro
  non provoca un gesto
da un pensiero umano,
fuori dall'ora della pietà.
Dare e avere. Nella mia voce
c'è almeno un segno
di geometria viva,
nella tua, una conchiglia
morta con lamenti funebri.

(Salvatore Quasimodo, da Dare e Avere 1959-1965)


Salvatore Ungaretti - acquarello di Pietro Bitto

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