Ora una breve biografia di Cesare Pavese
per meglio comprendere le complesse motivazioni che lo portarono al suicidio.
Il male di vivere di
Cesare Pavese, che nasce il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe in provincia di Cuneo, aveva, infatti, profonde radici.
Ultimo di cinque figli
(di cui solo lui e la sorella Maria sopravvissuti), la sua infanzia è presto
interrotta dalla morte per un cancro al cervello del padre Eugenio, cancelliere
presso il tribunale di Torino.
Atroce fu, per un
bambino di pochi anni, veder il padre patire a letto per lunghi mesi,
spegnendosi lentamente.
Tutta la sua vita fu
condizionata da questo doloroso lutto e ossessionata anche dall’insana
paura che il cancro potesse essere una tara familiare ereditaria.
L’educazione
dei figli resta così interamente affidata alla madre Consolina Mesturini,
donna energica, severa e poco espansiva probabilmente indurita dai troppi
dolori.
I suoi metodi rigorosi
non sono consoni alla sensibilità di Cesare, che cresce quindi timido e
introverso, senza riuscire a percepire il calore e la protezione di una vera
famiglia e troppo condizionato da questa figura autoritaria materna che invece
di rassicurarlo ne accresce incertezze e paure.
Consolina Mesturini
"Se nascerai un’altra volta dovrai andare adagio anche nell’attaccarti a tua madre. Non hai che da perderci."
(Cesare Pavese da Il mestiere di vivere)
(Cesare Pavese da Il mestiere di vivere)
Due anni dopo la morte
del padre, la madre decide di vendere le proprietà di Santo Stefano per
trasferirsi a Torino convinta di dare un futuro migliore ai figli.
In Cesare, molto
legato alla sua terra, quello sradicamento dal luogo natio causa un altro
lacerante strappo e il ricordo del suo paesino sempre resterà per lui il
simbolo di quella serenità e spensieratezza mai raggiunte.
La sua giovinezza
prosegue senza mai riuscire a superare quel senso d’inadeguatezza che si
ripercuoterà soprattutto nelle relazioni sentimentali.
La casa natale a Santo Stefano Belbo
Nel 1923 Pavese
s’iscrisse al liceo classico D'Azeglio di Torino, dove ebbe come
insegnante di lettere lo scrittore Augusto Monti, strenuo oppositore del regime
fascista e tra i suoi compagni di studi: Leone Ginzburg e Norberto Bobbio, che
in seguito divennero intellettuali antifascisti di spicco.
Mentre
frequentava il penultimo anno di liceo, Cesare s'invaghì di Milly (al
secolo Carolina Francesca Giuseppina Mignone) una ballerina cantante di
varietà, e rimase a lungo in casa malato a causa di una pleurite che si
era preso aspettandola a lungo sotto la pioggia: il Cesare cantato da
Francesco De Gregori nel 1973 in " Alice", è proprio lui!
... E Cesare perduto
nella pioggia
sta aspettando da sei
ore il suo amore ballerina.
E rimane lì, a
bagnarsi ancora un po’,
La ballerina Milly
L'anno seguente scosso
profondamente dalla tragica morte di un suo compagno di classe, che si era
tolto la vita con un colpo di rivoltella, ebbe la tentazione d'imitare il
gesto; in realtà Pavese da sempre accarezza l’idea del suicidio: ne parla
spesso nel diario, nelle opere giovanili e nelle discussioni con gli amici.
Pavese al liceo D'Azeglio
Dopo gli studi
classici nel 1930, si laurea in lettere con una tesi su Walt Whitman, divenendo
esperto di letteratura angloamericana.
Lo stesso anno muore
la madre e Cesare si troverà in gravi difficoltà economiche; non essendo
iscritto al partito fascista ha difficoltà nel trovare lavoro e riesce a
mantenersi con saltuarie lezioni in scuole private e le traduzioni di
grandi autori tra cui Ernest Hemingway, Lee Masters, Herman Melville,
James Joyce.
Nel 1932, per
insegnare nelle scuole pubbliche, cedendo con estrema riluttanza alle
insistenze della sorella Maria e del marito, si iscrive al partito nazionale
fascista, cosa che le rinfaccerà in una lettera del 29 luglio 1935: "A seguire i vostri consigli,
e l'avvenire e la carriera e la pace ecc., ho fatto una prima cosa contro la
mia coscienza".
All'inizio del 1934
inizia la collaborazione con la casa editrice di Giulio Einaudi, da poco
fondata, sostituendone il direttore Leone Ginzburg, arrestato a causa della
denuncia del delatore Dino Segre perché aderente al movimento "Giustizia e
Libertà", il movimento liberal-socialista fondato a Parigi nell'agosto del
1929 da un gruppo di esuli antifascisti, tra cui Carlo Rosselli e Gaetano
Salvemini.
Il 15 maggio 1935,
sempre su segnalazione di Dino Segre, fu fatta una perquisizione nella casa di
Pavese, sospettato di frequentare anche lui il gruppo culturale a contatto con
il movimento.
Il vile Dino
Segre (scrittore più noto con lo pseudonimo di Pitigrilli) causò
anche l'arresto di Carlo Levi, Massimo Mila, Giulio Einaudi e Augusto Monti.
Durante la
perquisizione, tra le sue carte di Cesare Pavese trovano una lettera dal
contenuto compromettente, di Altiero Spinelli, detenuto politico nel carcere
romano di Regina Coeli.
Ciò basta a farlo
arrestare e condannare a tre anni di confino a Brancaleone Calabro.
In realtà la lettera
era destinata a Battistina Pizzardo, la "donna dalla voce rauca" con
la quale aveva una tormentata relazione dal 1929.
La donna ,insegnante di matematica e iscritta al
Partito comunista clandestino, era in precedenza fidanzata con lo Spinelli e
continuava ad avere con lui contatti epistolari.
Pavese per non
contrariarla e anche per tutelarla, le permetteva di utilizzare il suo
indirizzo, pagando lui le conseguenze.
Era così in amore
Cesare Pavese: dava incondizionatamente e in cambio otteneva ben poco, se non
grandi delusioni e tradimenti!
Alla Pizzardo dedicherà i
versi di "Incontro", contenuti nella raccolta "Lavorare stanca".
INCONTRO
Queste dure colline
che han fatto il mio corpo
e lo scuotono a tanti
ricordi, mi han schiuso il prodigio
di costei, che non sa
che la vivo e non riesco a comprenderla.
L'ho incontrata, una
sera: una macchia più chiara
sotto le stelle
ambigue, nella foschia d'estate.
Era intorno il sentore
di queste colline
più profondo
dell'ombra, e d'un tratto suonò
come uscisse da queste
colline, una voce più netta
e aspra insieme, una
voce di tempi perduti.
Qualche volta la vedo,
e mi vive dinanzi
definita, immutabile,
come un ricordo.
Io non ho mai potuto
afferrarla: la sua realtà
ogni volta mi sfugge e
mi porta lontano.
Se sia bella, non so.
Tra le donne è ben giovane:
mi sorprende, e
pensarla, un ricordo remoto
dell'infanzia vissuta
tra queste colline,
tanto è giovane. È
come il mattino, mi accenna negli occhi
tutti i cieli lontani
di quei mattini remoti.
E ha negli occhi un
proposito fermo: la luce più netta
che abbia avuto mai
l'alba su queste colline.
L'ho creata dal fondo
di tutte le cose
che mi sono più care,
e non riesco a comprenderla.
Cesare Pavese
Il 4 agosto 1935
giunge a Brancaleone Calabro, un arretrato paesino in provincia di Reggio
Calabria, sul versante ionico, definito "Città delle tartarughe di
mare" perché su quel tratto di costa depone le uova la Caretta caretta.
Riceve una buona
accoglienza dei paesani, ma i ritmi della vita nel paesino sono lenti e
monotoni, oltretutto lui odia il mare.
Non può allontanarsi
dal paese, non può ricevere visite e ha l'obbligo di firma quotidiano,solo lo
scambio di posta gli è concesso.
Pavese dorme
così poco che l'alba lo trova sveglio a passeggiare sulla riva del mare,
vedendo morir le stelle una a una fino all'ultima: la più luminosa, la prima ad
accendersi la sera a spegnersi al mattino, quella dalla luce verdognola che in
dialetto locale chiamano " lo steddazzu".
LO STEDDAZZU
L’uomo solo si leva
che il mare è ancor buio
e le stelle vacillano.
Un tepore di fiato
sale su dalla riva,
dov’è il letto del mare,
e addolcisce il
respiro. Quest’è l’ora in cui nulla
può accadere. Perfino
la pipa tra i denti
pende spenta. Notturno
è il sommesso sciacquìo.
L’uomo solo ha già
acceso un gran fuoco di rami
e lo guarda arrossare
il terreno. Anche il mare
tra non molto sarà
come il fuoco, avvampante.
Non c’è cosa più amara
che l’alba di un giorno
in cui nulla accadrà.
Non c’è cosa più amara
che l’inutilità. Pende
stanca nel cielo
una stella verdognola,
sorpresa dall’alba.
Vede il mare ancor
buio e la macchia di fuoco
a cui l’uomo, per fare
qualcosa, si scalda;
vede, e cade dal sonno
tra le fosche montagne
dov’è un letto di
neve. La lentezza dell’ora
è spietata, per chi
non aspetta più nulla.
Val la pena che il
sole si levi dal mare
e la lunga giornata
cominci? Domani
tornerà l’alba tiepida
con la diafana luce
e sarà come ieri e mai
nulla accadrà.
L’uomo solo vorrebbe
soltanto dormire.
Quando l’ultima stella
si spegne nel cielo,
l’uomo adagio prepara la pipa
e l’accende.
Cesare Pavese
Per fortuna dei tre
anni inflitti, gliene condonano due, quindi resterà confinato a Brancaleone
solo qualche mese, meno d scrivendo la sofferta esperienza in una sorta di
diario, che sarà pubblicato postumo nel 1952 con il titolo “Il mestiere di vivere”.
Rientrato a Torino nel
marzo del '36, lo attende l’amara sorpresa di trovare Battistina sposata
con un altro.
La disillusione
e il dolore sono così forti che Cesare considera seriamente l’idea del
suicidio; a questa delusione si aggiunge l'insuccesso della raccolta di poesie
"Lavorare stanca", che passa praticamente inosservata.
A fatica
riprende alle traduzioni e agli impegni editoriali, ma soprattutto si
dedica alla scrittura.
Scrive allora gran
parte dei racconti pubblicati postumi nel volume "Notte di festa e compone i
primi "romanzi brevi": " II carcere", "Paesi tuoi" e "La
spiaggia".
Nel 1940 mentre
l'Italia è in guerra, Pavese è sentimentalmente coinvolto con una brillante
studentessa universitaria che era stata sua allieva al liceo D'Azeglio.
La giovane è Fernanda
Pivano (che conosciamo come scrittrice e giornalista) che coinvolge lo
scrittore al punto di proporle il matrimonio.
Ancora una volta non
corrisposto, la Piovano rifiuta ma ugualmente rimane tra loro una profonda amicizia
e stima.
A Fernanda Piovano dedicò alcune poesie, tra le quali "Mattino", "Estate" e "Notturno", inserite in "Lavorare stanca"
NOTTURNO
La collina è notturna,
nel cielo chiaro.
Vi s’inquadra il tuo
capo, che muove appena
e accompagna quel
cielo. Sei come una nube
intravista tra i rami.
Ti ride negli occhi
la stranezza di un
cielo che non è il tuo.
La collina di terra e
di foglie chiude
con la massa nera il
tuo vivo guardare,
la tua bocca ha la
piega di un dolce incavo
tra le coste lontane.
Sembri giocare
alla grande collina e
al chiarore del cielo:
per piacermi ripeti lo
sfondo antico
e lo rendi più puro.
Ma vivi
altrove.
Il tuo tenero sangue
si è fatto altrove.
Le parole che dice non
hanno riscontro
con la scabra
tristezza di questo cielo.
Tu non sei che una
nube dolcissima, bianca
impigliata una notte
fra i rami antichi.
Cesare Pavese
(19 ottobre 1940)
Nel 1941, con la
pubblicazione di "Paesi tuoi", s'impone finalmente all'attenzione della critica.
Nel 1943 Pavese si
trova a Roma per organizzare l’apertura di una sede Einaudi e qui è richiamato
alle armi ma poi congedato, perché affetto da asma di origine nervosa.
Torna a Torino, occupata
dai tedeschi e devastata dai bombardamenti, non trova più gli amici tutti
impegnati nella lotta partigiana e lui, che non se la sente di fare
altrettanto, si rifugia nel Monferrato dove era sfollata la sorella Maria.
Mentre si trovava
sulle colline del Monferrato Pavese, attraversa un periodo di profonda
crisi, preda di paura e sensi di colpa che mettono in discussione tutto ciò in
cui crede.
Ad aggravare la
situazione gli giunge anche la notizia della tragica morte di Leone Ginzburg.
Leone Ginzburg, anche
lui tra i fondatori del movimento "Giustizia e Libertà", dopo la
condanna a quattro anni di carcere, ricordiamo a causa di Dino Segre,
rilasciato nel 1936 in seguito a un'amnistia, aveva proseguito la sua attività
letteraria e antifascista.
Nel 1938 aveva sposato
Natalia Levi (nota come Natalia Ginzburg) e nel 1940 condannato al confino
politico in Abruzzo.
Liberato nel 1943 alla
caduta del fascismo, giunge a Roma diventando uno degli animatori della
Resistenza.
Nuovamente catturato e
incarcerato a Regina Coeli, morirà in carcere nel febbraio 1944 per le torture subite dai nazisti.
Riguardo ciò il 3 marzo Pavese scriverà: "L'ho saputo il
1º marzo. Esistono gli altri per noi? Vorrei che non fosse vero per non star
male. Vivo come in una nebbia, pensandoci sempre ma vagamente. Finisce che si
prende l'abitudine a questo stato, in cui si rimanda sempre il dolore vero a domani,
e così si dimentica e non si è sofferto"
Ritornato a Torino
dopo la liberazione, scopre che molti suoi amici sono morti, come Giaime Pintor
dilaniato da una mina sul fronte; Luigi Capriolo impiccato dai fascisti e
Gaspare Pajetta, suo ex allievo di soli diciotto anni, morto combattendo. Ciò lo
spinse a iscriversi al Partito comunista e a collaborare con il quotidiano
l'Unità; ne comunicherà notizia all'amico Massimo Mila: "Io ho finalmente
regolato la mia posizione iscrivendomi al PCI".
Molto probabilmente mai si perdonò di non aver attivamente partecipato alla lotta armata come i suoi amici molto e la sua fragile personalità s'incrinò ancora di più.
Nella redazione de
L'Unità conobbe Italo Calvino, che lo divenne da quel momento uno dei più
stimati collaboratori.
Verso la fine del
1945, ebbe l'incarico di potenziare la sede di Roma
dell’Einaudi.
Pavese faticò a
staccarsi dall'ambiente torinese, dagli amici e soprattutto dalla nuova attività
politica e il periodo romano fu considerato dallo scrittore come un esilio,
facendolo ricadere nella malinconia.
La casa natale di Pavere ora museo
Nella
segreteria della sede romana conosce Bianca Garufi,
un’aristocratica di origini siciliane e per lei Pavese prova una nuova
passione, più profonda di quella provata per Fernanda Pivano.
Insieme vanno
spesso a cena per parlare di letteratura, mitologia greca e psicoanalisi,
materia che la Garufi aveva iniziato a studiare e addirittura collaborano a scrivere un romanzo che
rimarrà incompiuto e pubblicato postumo nel 1959 con il titolo di
"Fuoco
grande".
La storia però si
ripete: Bianca Garufi nei suoi confronti non prova che una grande intesa
intellettuale facendo di nuovo tanto soffrire Cesare.
Scriverà nel suo
diario, il 1º gennaio del 1946 : "Hai la forza, hai il genio, hai da fare. Sei
solo. Hai due volte sfiorato il suicidio quest'anno. Tutti ti ammirano, ti
complimentano, ti ballano intorno. Ebbene? Non hai mai combattuto, ricordalo.
Non combatterai mai. Conti qualcosa per qualcuno?"
Alla Garufi dedica
un ciclo di poesie: "La terra e la morte " edite in seguito da
Einaudi.
SEI LA TERRA E LA MORTE
La tua stagione è il
buio
e il silenzio. Non
vive
cosa che più di te
sia remota dall’alba.
Quando sembri destarti
sei soltanto dolore,
l’hai negli occhi e
nel sangue
ma tu non senti. Vivi
come vive una pietra,
come la terra dura.
E ti vestono sogni
movimenti singulti
che tu ignori. Il
dolore
come l’acqua di un
lago
trepida e ti circonda.
Sono cerchi
sull’acqua.
Tu li lasci svanire.
Sei la terra e la
morte.
Cesare Pavese
"Saprò diventare
come vuoi. Devo diventarlo, perché non voglio che la nostra storia somigli alle
altre che ho bruciato."
(dal carteggio tra Cesare Pavese e Bianca Garufi)
Nel 1947 escono "I
Dialoghi con Leucò" e nel 1948 "Il compagno"(per il quale gli fu assegnato il
Premio Salento) e "La casa in collina".
Seguirono ne'48 "Prima che il gallo canti", molto apprezzato dai critici e
"La bella estate" nel '49.
La consacrazione
definitiva avviene però con "La luna e i falò" che dedica a Constance Dowling,
l'attrice da poco conosciuta, ma già tanto amata, scrivendo «For C. -
Ripeness is all», ossia "Per C. - la maturità è tutto".
Il romanzo, scritto nel 1949 in pochi mesi e pubblicato nella primavera del 1950 gli valse il Premio Strega e sarà
anche l'opera conclusiva della sua carriera perché il 27 Agosto del 1950, fortemente
amareggiato per l'abbandono di Constance e avvilito per le incomprensioni
politiche, come ultimi scossoni al suo equilibrio, in un albergo di Torino si
tolse la vita ingerendo una letale dose di sonniferi.
Chissà se ora riposa in pace, il suo tormentato cuore, così bisognoso
d'amore e così poco amato...
NOTTE
Lontano, nella notte,
oltre la morte
sopra una stella
azzurra
tra esistenze
meravigliose
ancora quest'anima
convulsa
nelle sue insoffribili
vergogne
esasperanti
senza scampo, per
tutto l'universo
dove dovró passare
e il pensiero che
infine, nella luce
suprema soffriró
ancora il tormento
di non aver urlato
che tanto era inutile.
O forse questa vita
è la sola concessa
e allora mi esaspera,
mi taglia il respiro,
il pensiero di non
aver urlato,
per la mia anima vile,
confuso a tutti i
poveri impotenti
che marciscono sulla
terra.
Cesare Pavese
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