16 aprile 2014

CESARE PAVESE- Breve biografia



 Ora una breve biografia di Cesare Pavese per meglio comprendere le complesse motivazioni che lo portarono al suicidio.

Il male di vivere di Cesare Pavese, che nasce il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe in provincia di Cuneo, aveva, infatti, profonde radici.
Ultimo di cinque figli (di cui solo lui e la sorella Maria sopravvissuti), la sua infanzia è presto interrotta dalla morte per un cancro al cervello del padre Eugenio, cancelliere presso il tribunale di Torino.
Atroce fu, per un bambino di pochi anni, veder il padre patire a letto per lunghi mesi, spegnendosi lentamente.
Tutta la sua vita fu condizionata da questo doloroso lutto e ossessionata anche dall’insana paura che il cancro potesse essere una tara familiare ereditaria.


Cesare Pavese da bambino

L’educazione dei figli resta così interamente affidata alla madre Consolina Mesturini, donna energica, severa e poco espansiva probabilmente indurita dai troppi dolori.
I suoi metodi rigorosi non sono consoni alla sensibilità di Cesare, che cresce quindi timido e introverso, senza riuscire a percepire il calore e la protezione di una vera famiglia e troppo condizionato da questa figura autoritaria materna che invece di rassicurarlo ne accresce incertezze e paure.


Consolina Mesturini

"Se nascerai un’altra volta dovrai andare adagio anche nell’attaccarti a tua madre. Non hai che da perderci."
(Cesare Pavese da Il mestiere di vivere)


Due anni dopo la morte del padre, la madre decide di vendere le proprietà di Santo Stefano per trasferirsi a Torino convinta di dare un futuro migliore ai figli.
In Cesare, molto legato alla sua terra, quello sradicamento dal luogo natio causa un altro lacerante strappo e il ricordo del suo paesino sempre resterà per lui il simbolo di quella serenità e spensieratezza mai raggiunte.

La sua giovinezza prosegue senza mai riuscire a superare quel senso d’inadeguatezza che si ripercuoterà soprattutto nelle relazioni sentimentali.

La casa natale a Santo Stefano Belbo


Nel 1923 Pavese s’iscrisse al liceo classico D'Azeglio di Torino, dove ebbe come insegnante di lettere lo scrittore Augusto Monti, strenuo oppositore del regime fascista e tra i suoi compagni di studi: Leone Ginzburg e Norberto Bobbio, che in seguito divennero intellettuali antifascisti di spicco.
 Mentre frequentava il penultimo anno di liceo, Cesare s'invaghì di Milly (al secolo Carolina Francesca Giuseppina Mignone) una ballerina cantante di varietà, e rimase a lungo in casa malato a causa di una pleurite che si era preso aspettandola a lungo sotto la pioggia: il Cesare cantato da Francesco De Gregori nel 1973 in " Alice", è proprio lui!

... E Cesare perduto nella pioggia
sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina.
E rimane lì, a bagnarsi ancora un po’,
e il tram di mezzanotte se ne va...


  La ballerina Milly


L'anno seguente scosso profondamente dalla tragica morte di un suo compagno di classe, che si era tolto la vita con un colpo di rivoltella, ebbe la tentazione d'imitare il gesto; in realtà Pavese da sempre accarezza l’idea del suicidio: ne parla spesso nel diario, nelle opere giovanili e nelle discussioni con gli amici.


Pavese al liceo D'Azeglio


Dopo gli studi classici nel 1930, si laurea in lettere con una tesi su Walt Whitman, divenendo esperto di letteratura angloamericana.
Lo stesso anno muore la madre e Cesare si troverà in gravi difficoltà economiche; non essendo iscritto al partito fascista ha difficoltà nel trovare lavoro e riesce a mantenersi  con saltuarie lezioni in scuole private e le traduzioni di grandi autori tra cui Ernest  Hemingway, Lee Masters, Herman Melville, James Joyce.

Nel 1932, per insegnare nelle scuole pubbliche, cedendo con estrema riluttanza alle insistenze della sorella Maria e del marito, si iscrive al partito nazionale fascista, cosa che le  rinfaccerà in una lettera del 29 luglio 1935: "A seguire i vostri consigli, e l'avvenire e la carriera e la pace ecc., ho fatto una prima cosa contro la mia coscienza".



All'inizio del 1934 inizia la collaborazione con la casa editrice di Giulio Einaudi, da poco fondata, sostituendone il direttore Leone Ginzburg, arrestato a causa della denuncia del delatore Dino Segre perché aderente al movimento "Giustizia e Libertà", il movimento liberal-socialista fondato a Parigi nell'agosto del 1929 da un gruppo di esuli antifascisti, tra cui  Carlo Rosselli e Gaetano Salvemini.
Il 15 maggio 1935, sempre su segnalazione di Dino Segre, fu fatta una perquisizione nella casa di Pavese, sospettato di frequentare anche lui il gruppo culturale a contatto con il movimento.
Il vile Dino Segre (scrittore più noto con lo pseudonimo di Pitigrilli) causò anche l'arresto di Carlo Levi, Massimo Mila, Giulio Einaudi e Augusto Monti.
Durante la perquisizione, tra le sue carte di Cesare Pavese trovano una lettera dal contenuto compromettente, di Altiero Spinelli, detenuto politico nel carcere romano di Regina Coeli.

Ciò basta a farlo arrestare e condannare a tre anni di confino a Brancaleone Calabro

 


In realtà la lettera era destinata a Battistina Pizzardo, la "donna dalla voce rauca" con la quale aveva una tormentata relazione dal 1929.
La donna ,insegnante di matematica e iscritta al Partito comunista clandestino, era in precedenza fidanzata con lo Spinelli e continuava ad avere con lui contatti epistolari.
 Pavese per non contrariarla e anche per tutelarla, le permetteva di utilizzare il suo indirizzo, pagando lui le conseguenze.
Era così in amore Cesare Pavese: dava incondizionatamente e in cambio otteneva ben poco, se non grandi delusioni e tradimenti!
Alla Pizzardo dedicherà i versi di "Incontro", contenuti nella raccolta "Lavorare stanca".

INCONTRO

Queste dure colline che han fatto il mio corpo
e lo scuotono a tanti ricordi, mi han schiuso il prodigio
di costei, che non sa che la vivo e non riesco a comprenderla.

L'ho incontrata, una sera: una macchia più chiara
sotto le stelle ambigue, nella foschia d'estate.
Era intorno il sentore di queste colline
più profondo dell'ombra, e d'un tratto suonò
come uscisse da queste colline, una voce più netta
e aspra insieme, una voce di tempi perduti.

Qualche volta la vedo, e mi vive dinanzi
definita, immutabile, come un ricordo.
Io non ho mai potuto afferrarla: la sua realtà
ogni volta mi sfugge e mi porta lontano.
Se sia bella, non so. Tra le donne è ben giovane:
mi sorprende, e pensarla, un ricordo remoto
dell'infanzia vissuta tra queste colline,
tanto è giovane. È come il mattino, mi accenna negli occhi
tutti i cieli lontani di quei mattini remoti.
E ha negli occhi un proposito fermo: la luce più netta
che abbia avuto mai l'alba su queste colline.

L'ho creata dal fondo di tutte le cose
che mi sono più care, e non riesco a comprenderla.

Cesare Pavese


Il 4 agosto 1935 giunge a Brancaleone Calabro, un arretrato paesino in provincia di Reggio Calabria, sul versante ionico, definito "Città delle tartarughe di mare" perché su quel tratto di costa depone le uova la Caretta caretta.
 Riceve una buona accoglienza dei paesani, ma i ritmi della vita nel paesino sono lenti e monotoni, oltretutto lui odia il mare.
Non può allontanarsi dal paese, non può ricevere visite e ha l'obbligo di firma quotidiano,solo lo scambio di posta gli è concesso.  

 Pavese dorme così poco che l'alba lo trova sveglio a passeggiare sulla riva del mare, vedendo morir le stelle una a una fino all'ultima: la più luminosa, la prima ad accendersi la sera a spegnersi al mattino, quella dalla luce verdognola che in dialetto locale chiamano " lo steddazzu".
   
      

LO STEDDAZZU

L’uomo solo si leva che il mare è ancor buio
e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
sale su dalla riva, dov’è il letto del mare,
e addolcisce il respiro. Quest’è l’ora in cui nulla
può accadere. Perfino la pipa tra i denti
pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquìo.
L’uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare
tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.

Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara
che l’inutilità. Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall’alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
a cui l’uomo, per fare qualcosa, si scalda;
vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
dov’è un letto di neve. La lentezza dell’ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.

Val la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà l’alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
Quando l’ultima stella si spegne nel cielo,
l’uomo adagio prepara la pipa e l’accende.

Cesare Pavese
( da Lavorare stanca)


Pavese a Brancaleone

Per fortuna dei tre anni inflitti, gliene condonano due, quindi resterà confinato a Brancaleone solo qualche mese, meno d scrivendo la sofferta esperienza in una sorta di diario, che sarà pubblicato postumo nel 1952 con il titolo “Il mestiere di vivere”.   
 Rientrato a Torino nel marzo del  '36, lo attende l’amara sorpresa di trovare Battistina sposata con un altro.
 La disillusione e il dolore sono così forti che Cesare considera seriamente l’idea del suicidio; a questa delusione si aggiunge l'insuccesso della raccolta di poesie "Lavorare stanca", che passa praticamente inosservata
A fatica riprende alle traduzioni e agli impegni editoriali, ma soprattutto si dedica alla scrittura.
Scrive allora gran parte dei racconti pubblicati postumi nel volume "Notte di festa e compone i primi "romanzi brevi": " II carcere", "Paesi tuoi" e "La spiaggia". 
Nel 1940 mentre l'Italia è in guerra, Pavese è sentimentalmente coinvolto con una brillante studentessa universitaria che era stata sua allieva al liceo D'Azeglio.
La giovane è Fernanda Pivano (che conosciamo come scrittrice e giornalista) che coinvolge lo scrittore al punto di proporle il matrimonio.
Ancora una volta non corrisposto, la Piovano rifiuta ma ugualmente rimane tra loro una profonda amicizia e stima.
A Fernanda Piovano dedicò alcune poesie, tra le quali "Mattino", "Estate" e "Notturno", inserite in "Lavorare stanca" 


NOTTURNO

La collina è notturna, nel cielo chiaro.
Vi s’inquadra il tuo capo, che muove appena
e accompagna quel cielo. Sei come una nube
intravista tra i rami. Ti ride negli occhi
la stranezza di un cielo che non è il tuo.

La collina di terra e di foglie chiude
con la massa nera il tuo vivo guardare,
la tua bocca ha la piega di un dolce incavo
tra le coste lontane. Sembri giocare
alla grande collina e al chiarore del cielo:
per piacermi ripeti lo sfondo antico
e lo rendi più puro.

  Ma vivi altrove.
Il tuo tenero sangue si è fatto altrove.
Le parole che dice non hanno riscontro
con la scabra tristezza di questo cielo.
Tu non sei che una nube dolcissima, bianca
impigliata una notte fra i rami antichi.

Cesare Pavese

(19 ottobre 1940)


Nel 1941, con la pubblicazione di "Paesi tuoi", s'impone finalmente all'attenzione della critica.
Nel 1943 Pavese si trova a Roma per organizzare l’apertura di una sede Einaudi e qui è richiamato alle armi ma poi congedato, perché affetto da asma di origine nervosa.
 Torna a Torino, occupata dai tedeschi e devastata dai bombardamenti, non trova più gli amici tutti impegnati nella lotta partigiana e lui, che non se la sente di fare altrettanto, si rifugia nel Monferrato dove era sfollata la sorella Maria.
Mentre si trovava sulle colline del Monferrato Pavese, attraversa un periodo di profonda crisi, preda di paura e sensi di colpa che mettono in discussione tutto ciò in cui crede.
Ad aggravare la situazione gli giunge anche la notizia della tragica morte di Leone Ginzburg.
Leone Ginzburg, anche lui tra i fondatori del movimento "Giustizia e Libertà", dopo la condanna a quattro anni di carcere, ricordiamo a causa di Dino Segre, rilasciato nel 1936 in seguito a un'amnistia, aveva proseguito la sua attività letteraria e antifascista.
Nel 1938 aveva sposato Natalia Levi (nota come Natalia Ginzburg) e nel 1940 condannato al confino politico in Abruzzo.
Liberato nel 1943 alla caduta del fascismo, giunge a Roma diventando uno degli animatori della Resistenza.
Nuovamente catturato e incarcerato a Regina Coeli, morirà in carcere nel febbraio 1944  per le torture subite dai nazisti. 
Riguardo ciò  il 3 marzo  Pavese scriverà: "L'ho saputo il 1º marzo. Esistono gli altri per noi? Vorrei che non fosse vero per non star male. Vivo come in una nebbia, pensandoci sempre ma vagamente. Finisce che si prende l'abitudine a questo stato, in cui si rimanda sempre il dolore vero a domani, e così si dimentica e non si è sofferto"




Ritornato a Torino dopo la liberazione, scopre che molti suoi amici sono morti, come Giaime Pintor dilaniato da una mina sul fronte; Luigi Capriolo impiccato dai fascisti e Gaspare Pajetta, suo ex allievo di soli diciotto anni, morto combattendo. Ciò lo spinse a iscriversi al Partito comunista e a collaborare con il quotidiano l'Unità; ne comunicherà notizia all'amico Massimo Mila: "Io ho finalmente regolato la mia posizione iscrivendomi al PCI".
Molto probabilmente mai si perdonò di non aver attivamente partecipato alla lotta armata come i suoi amici molto e la sua fragile personalità s'incrinò ancora di più.

Nella redazione de L'Unità conobbe Italo Calvino, che lo divenne da quel momento uno dei più stimati collaboratori.
Verso la fine del 1945, ebbe l'incarico di potenziare la sede di Roma dell’Einaudi.
Pavese faticò a staccarsi dall'ambiente torinese, dagli amici e soprattutto dalla nuova attività politica e il periodo romano fu considerato dallo scrittore come un esilio, facendolo ricadere nella malinconia.

La casa natale di Pavere ora museo



Nella segreteria della sede romana conosce Bianca Garufi, un’aristocratica di origini siciliane e per lei Pavese prova una nuova passione, più profonda di quella provata per Fernanda Pivano.
 Insieme vanno spesso a cena per parlare di letteratura, mitologia greca e psicoanalisi, materia che la Garufi aveva iniziato a studiare e addirittura collaborano a scrivere un romanzo che rimarrà incompiuto e pubblicato postumo nel 1959 con il titolo di "Fuoco grande".
La storia però si ripete: Bianca Garufi nei suoi confronti non prova che una grande intesa intellettuale facendo di nuovo tanto soffrire Cesare.
Scriverà nel suo diario, il 1º gennaio del 1946 : "Hai la forza, hai il genio, hai da fare. Sei solo. Hai due volte sfiorato il suicidio quest'anno. Tutti ti ammirano, ti complimentano, ti ballano intorno. Ebbene? Non hai mai combattuto, ricordalo. Non combatterai mai. Conti qualcosa per qualcuno?"

Alla Garufi dedica un ciclo di poesie: "La terra e la morte " edite in seguito da Einaudi.

SEI LA TERRA E LA MORTE

La tua stagione è il buio
e il silenzio. Non vive
cosa che più di te
sia remota dall’alba.
Quando sembri destarti
sei soltanto dolore,
l’hai negli occhi e nel sangue
ma tu non senti. Vivi
come vive una pietra,
come la terra dura.
E ti vestono sogni
movimenti singulti
che tu ignori. Il dolore
come l’acqua di un lago
trepida e ti circonda.
Sono cerchi sull’acqua.
Tu li lasci svanire.
Sei la terra e la morte.

Cesare Pavese


"Saprò diventare come vuoi. Devo diventarlo, perché non voglio che la nostra storia somigli alle altre che ho bruciato."
(dal carteggio tra Cesare Pavese e Bianca Garufi)



Nel 1947 escono "I Dialoghi con Leucò" e nel 1948 "Il compagno"(per il quale gli fu assegnato il Premio Salento) e "La casa in collina".
Seguirono ne'48 "Prima che il gallo canti", molto apprezzato dai critici e "La bella estate" nel '49.
La consacrazione definitiva avviene però con "La luna e i falò" che dedica a Constance Dowling, l'attrice da poco conosciuta, ma già tanto amata, scrivendo «For C. - Ripeness is all», ossia "Per C. - la maturità è tutto".


Il romanzo, scritto nel 1949 in pochi mesi e pubblicato nella primavera del 1950 gli valse il Premio Strega sarà anche l'opera conclusiva della sua carriera perché il 27 Agosto del 1950, fortemente amareggiato per l'abbandono di Constance e avvilito per le incomprensioni politiche, come ultimi scossoni al suo equilibrio, in un albergo di Torino si tolse la vita ingerendo una letale dose di sonniferi.
Chissà se ora riposa in  pace, il suo tormentato cuore, così bisognoso d'amore e così poco amato...



NOTTE

Lontano, nella notte, oltre la morte
sopra una stella azzurra
tra esistenze meravigliose
ancora quest'anima convulsa
nelle sue insoffribili vergogne
esasperanti
senza scampo, per tutto l'universo
dove dovró passare
e il pensiero che infine, nella luce
suprema soffriró ancora il tormento
di non aver urlato
che tanto era inutile.
O forse questa vita
è la sola concessa
e allora mi esaspera, mi taglia il respiro,
il pensiero di non aver urlato,
per la mia anima vile,
confuso a tutti i poveri impotenti

che marciscono sulla terra.

Cesare Pavese



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